Vittorio, reuccio di Corviale la boxe come palestra di vita
pubblicato da Cezar// 6 maggio, 2010 // articoli di giornale
Repubblica — 20 marzo 2004 pagina 9 sezione: ROMA
Subito dopo l’ European Hospital, Romacittà finisce all’ “ultimo” semaforo di via Portuense. Oltre si va verso il mare di Ostia. E’ dentro questi saliscendi che i ruderi emergono dalla campagna come costruzioni del futuro, mentre i palazzi del presente sembrano mura antiche, bastioni di una storia umana e visionaria. La campagna si rifà ventre di Roma, e come per magia risputa fuori verde, galline, pecore. E anche Corviale. Sì, proprio il famigerato Corviale, il palazzone lungo un chilometro. Se ne sta in cima alla collina, grigiastro, solitario, maschera ciclopica, con i suoi duemilaottocento appartamenti più quattrocento “occupati”, per un totale di sedicimila abitanti. Una cittadella, non un condominio, abitata quasi dal doppio della popolazione di Anzio in inverno. Vedi Corviale e osservi tutto quello
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che non c’ è – non c’ è niente, come se nascesse o fosse abbandonato in questo momento – , eppure queste mura e tutte queste persone che vi sono incatenate emanano un’ energia che, sono sicuro, sarà la nuova immensa Roma. Ai suoi piedi le cartacce volano, le chiazze di olio bruciato restano, e le persone sono invisibili. Sembra un paese disabitato. Con alcune facce ci puntiamo con gli occhi tra le sbarre delle cancellate. Pare che di là si sia congelata la bellezza del centro storico, di qua tutta la bruttezza possibile. Invece non è così. Pure questa è la bellezza di Roma. Anzi, questa di Corviale è una bellezza alla quale va ridata dignità. E’ una bellezza con gli attributi, con la potenza del futuro perché, nei cunicoli della sua pancia di cemento, possiede i ruderi del passato e una forza pronta a esplodere. Non a caso ficcata sottoterra, come l’ ennesimo buco del palazzaccio, c’ è una palestra di boxe che si chiama “Nuovo Corviale”. Sì, una palestra di pugilato, ma pure una palestra di vita. Soprattutto una palestra di vita. I fratelli Barbante, Vittorio il più grande dei tre (gli altri due sono Giuliano e Roberto oltre al padre Luigi) ex pugile con centotrenta incontri da dilettante e venti da professionista all’ attivo (peso welter, il “reuccio di Corviale”), quattordici anni fa si sono messi a ripulire il “sotterraneo”. «Ci siamo fatti un bucio così», mi spiega il peso leggero Roberto. «Abbiamo ripulito uno schifo di discarica. Gatti morti e siringhe; cani e siringhe. Abbiamo riverniciato, ripulito i muri scritti col sangue delle siringhe». Noto che ha ragione il piccolo Barbante: le foto del loro lavoro sono incollate al muro in bella mostra, tra i dieci sacchi “full boxe” e una sola “pera” floscia. Dalle foto si vedono dei ragazzi alle prese con carriole e pale. Tutto è affumicato e sporco. I Barbante hanno voluto lasciare la testimonianza della fatica. Alle pareti non ci sono le immagini della grandeur della boxe. Non appare Alì, non c’ è Tyson, non c’ è nemmeno il compiantissimo Tiberio Mitri che duella con il mitico Jake La Motta: questa istantanea è su un vecchio numero di Boxe Ring, con pudore custodito nell’ ufficietto di Barbante-padre. In mezzo a tanta polvere e carcasse di animali morti, al limite serpeggia la faccia d’ angelo di Giuliano Gemma, o quella da angioletto ben pettinato di “Rocky” Mattioli, oppure si leggono i colpi di Galvano, di Gianni Di Napoli, di Parisi. Al “Nuovo Corviale” non ci si pavoneggia, l’ occhio vizioso della telecamera non è mai entrato. Dalle finestre si vede la campagna, appiccicate al vetro vengono le galline e le caprette tibetane. L’ aria che si respira è povera e severa. Ogni parola è soppesata, trasuda di un orgoglio muto. Sul ring si sta allenando il campioncino Andrea Cosentino, 28 anni, super welter, ventisei incontri. Il suo maestro, Stefano Sinacore, ha infilati i paracolpi e spinge
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a colpire, con parole secche, la sua “guardia sinistra” che risponde con altrettanti colpi secchi. Intanto sono arrivati altri aspiranti pugili, si stanno riscaldando, mentre le pugilatrici, Martina, Sara e Daniela sono scappate via. Hanno afferrato la loro timidezza e sono fuggite. «Sono duri i colpi, o no?» dico ad Andrea che ora è passato alla corda. «I colpi al fegato sono quelli tremendi. Ti distruggono piano piano e non ti fanno ragionare». «E il kappaò?», gli ripeto due volte. «Il colpo da kappaò non lo senti neppure. Cadi fulminato e basta». Io, Roberto e l’ istruttore ci mettiamo a sorridere. Capisco che in questa palestra non si ride, non c’ è niente da ridere, al massimo si sorride, tanto per non lasciarsi soffocare dal pudore. «Senti Andrea – gli chiedo ancora – ma del pugilato
qual è la cosa che più ti impressiona?». Cosentino non ha un attimo di incertezza: «E’ quando ti guardano tutti che fa paura. Dell’ avversario non ho paura. Ma quando sali sul ring e vedi tutta quella gente che ti fissa… ecco, quella è una cosa impressionante». Roberto Barbante mi racconta che qualche mese fa i suoi pugili hanno combattuto al Palazzetto dello Sport, in una riunione dedicata alla memoria dei pugili defunti. Mi sembra una gran cosa. Mi pare eccezionale che questi ragazzi senza nome, col fuoco della passione, con gli occhi dei ragazzini, insieme a quelli delle altre “palestracce” – Trastevere, Centocelle, Casal Bruciato – si sfidino ancora per il pane duro della boxe e non per la borsa dei riflettori. Ragazzi della Romabella, forza!, alzate le chiappe e andate al Palazzetto, questo è uno spettacolo inedito, è lo spettacolo di una Roma immortale. Mentre parlo con Roberto noto che sul polso ha un tatuaggio. «Sono pieno di tatuaggi», mi fa senza punti interrogativi. «Ho il sacrocuore, le mani di Cristo. E questo è il mio pupo». Quando si tira la maglietta gli vedo sul petto un bambolotto che è tale e quale a un puttino che fa tante freccette. «E’ mio figlio» mi spiega con orgoglio. Il bambino di Roberto
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sta sulla pelle del padre dall’ età di nove mesi. Anche nove sono i ragazzi di Corviale che ronzano attorno alla palestra, ma non hanno i soldi per pagare il mensile. «Costa poco» mi ricorda Barbante junior, «non costa niente. E poi se qualcuno viene qui non sta in mezzo alla strada. Qui combatte». E’ vero,
non c’ è problema, qui si combatte. Quando Roberto mi regala la canotta del “Nuovo Corviale”, ovviamente non mi commuovo, ma credo che sia un gesto forte, d’ amico, un colpo di questa Roma dopo l’ ultimo semaforo di Romacentro, di Romabella,
di Romacittà. In questa Roma di via Portuense dove il rudere di Corviale è come un gigante sdraiato che pullula di figli vivi. – AURELIO PICCA
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