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Repubblica — 10 ottobre 2001 pagina 7 sezione: ROMA
Dall’ ultimo censimento effettuato dallo Iacp (istituto autonomo case popolari) nel 1992 93, Corviale ospiterebbe circa 4.500 abitanti: 1.500 famiglie divise nei 1202 appartamenti regolari, e altre 64 (per 165 persone) occupanti. Il palazzo, diviso in 5 lotti, misura 1 chilometro di lunghezza per 9 piani di altezza più garage e seminterrato. Ispirato alle teorie di Le Corbusier, fu progettato da un’ equipe di 23 architetti diretta da Mario Fiorentino. La prima pietra venne posta il 12 maggio 1975, le prime case furono assegnate nell’ ottobre del 1982. Ti prende così. Quando ti trovi davanti al malefico “serpentone” senti il bisogno di aggrapparti ai numeri. Serve a combattere la vertigine. Come l’ autistico Tom Cruise di Rain Man, che compilava elenchi, contava e ricontava i passi, imparava a memoria inutili dati per sottrarsi alla deriva della vita. Ed è strano, perché il palazzo di Corviale, nelle intenzioni, non doveva somigliare al caos del mondo, ma piuttosto a una specie di equazione algebrica. Pianificato perché potesse essere autosufficiente, un villaggio autarchico con un’ unica eccentricità: anziché avere piazze, vicoli, incroci, sarebbe stato disposto su un’ unica linea leggermente curva. Quello che è uscito fuori è invece semplicemente un condominio deforme per dimensioni, un “mostro” di un’ originalità un po’ sinistra. Per questa sua assoluta stravaganza, Corviale è apparso subito ingovernabile. Come immaginare riunioni di condominio, pulizie delle scale, manutenzione degli apparati, assegnazione dei posti macchina? È stato come se cento anni fa i marziani avessero recapitato sulla terra i computer ma senza libretto di istruzione. Ed è per questo che, per mezzo di dolorose contrazioni, continui rivolgimenti, corruzioni e risurrezioni, il mostro ha dovuto produrre da se stesso leggi inedite che riuscissero ad amministrarlo. E non in un angolo appartato dove poter riflettere con serenità, ma sempre al centro di polemiche infinite e irredimibili. La sua fama, spesso pessima, ha tenuto Corviale sempre sotto una lente impietosa. Mica facile vivere così. Come il quartiere Zen di Palermo. C’ è stato chi ha condannato l’ esperimento fin dalle premesse e chi ha sostenuto, come Gregotti (che dello Zen è autore), che la responsabilità del fallimento andava attribuita alla incompiutezza: noi progettiamo macchine grandiose e straordinarie e voi le abbandonate prima che siano finite. Ovvio che marciscano, come esserini partoriti al mondo prima che abbiano tutti gli organi formati e funzionanti. Tra i primi il focoso Massimiliano Fuksas: «Secondo me la capitale di Niemeyer e il palazzo lungo un chilometro di Roma sono figli della stessa logica. Anzi della stessa utopia: dare un ordine al mondo, trovare un modello per il mondo. Ma nessuno di quei modelli ha mai funzionato, né Corviale né lo Zen avrebbero mai “funzionato”, nemmeno in presenza di tutti i possibili servizi sociali e di quartiere, di tutte le certezze organizzative e di sicurezza. Il problema è un altro: quando qualcuno desidera “fare ordine” fatalmente aggiunge un nuovo danno al danno preesistente». È vero. Ma chi è che non desidera fare ordine? Ognuno pensa che il mondo, senza l’ intervento della propria cultura e civiltà, sia in balìa della violenza e dell’ ingiustizia. Lo pensa Bin Laden, lo pensa Bush. E poi, come si fa a non essere d’ accordo sul fatto che, se si realizza uno shuttle poi bisogna arrivare in fondo, e non, che so, lesinare sul propulsore? Senza un propulsore perfettamente completato lo shuttle anziché decollare si affloscia sulla rampa come la vaniglia sul cono, senza alcun dubbio. Certo, ci sono shuttle che si afflosciano comunque, ma peggio per loro, hanno avuto la loro brava opportunità. E qui si inserisce la storia del quarto piano. Nel progetto iniziale questa parte era infatti destinata a negozi, laboratori artigianali, biblioteche e servizi vari. Una zona cuscinetto che avrebbe dovuto decomprimere la densità umana del “transatlantico”. Ma purtroppo la spinta si era ammosciata e il quarto piano era rimasto a lungo deserto e sciupacchiato. Ma a Corviale, dove vigono inedite e infallibili leggi che contengono in misura aurea ordine ed entropia, il problema è stato risolto nel migliore dei modi: accogliendo una pacifica occupazione. L’ invasione ha portato molte buone cose al Corviale. Gli occupanti per esempio, sono stati risolutivi nella lotta fratricida contro i tossici perennemente accampati in quel vuoto appetitoso. I nuovi inquilini si sono alleati e hanno spintonato giù dalle scale i corpi abbandonati, spazzato le siringhe, bonificato le aiuole verdi. Le famiglie degli occupanti hanno poi tirato su muri che non c’ erano, fatto gli allacciamenti di acqua, luce, gas e col tempo si sono anche messe in regola. Hanno costruito appartamenti dignitosi al posto di alvei disabitati e bonificato il chilometro di corridoi e piazze di cui ci si era dimenticati. Oggi il quarto piano è identico agli altri, coi suoi bravi cancelli di ferro chiusi da catene che delimitano microcosmi di sette, otto appartamenti, e la sua fermata blu dell’ ascensorefuori uso opportunamente devastata. Per raggiungerlo, quindi, salgo per le scale. Un chilometro in macchina è un istante. Arrivavo da Via di Poggio Verde e mentre parcheggiavo, dopo aver costeggiato il palazzo fino in fondo, avevo fatto in tempo a pensare che beh, ‘sto Corviale lo immaginavo più grande. Capita di pensare stronzate quando si cerca di farsi coraggio. L’ impatto col “mostro” è infatti un po’ complicato. Una scia di macchine bruciate e imbottite di spazzatura e di pezzi di se stesse segna il tragitto di accesso. E questo non dispone l’ anima né alla bellezza né alla serenità. Sarebbe stato meglio entrare dall’ altra parte, dove stanno i citofoni e gli androni con le vertiginose strutture in metallo, piuttosto che dal garage. I garage sono scenografie dell’ orrore, si sa. Ma adesso sono di qua e Corviale, che dal mio metro e settanta a naso in sù adesso percepisco nella sua straordinaria immensità, è una muraglia cinese invalicabile. Mentre salgo mi ripeto la mia preghierina di cifre per farmi coraggio. Sono le tre di un pomeriggio assolato e l’ intero Corviale sembra deserto. Passa davanti a qualcosa di spaventoso che nei piani doveva essere uno dei gabbiotti della portineria. Le buche delle lettere sono aperte come scatole di pelati, il pavimento è invaso di monnezza, scheletri di motorini morti giacciono negli angoli. Sarei per compiangere e giudicare, ma la reazione inventata dal condominio mi spiazza. Ancora una volta l’ infallibile politica interna ha prodotto dalla merda il suo contrario: di fronte, in uno stanzino anche lui abbandonato, è stata creata una portineria bis, protetta dagli immancabili catenoni, dove le buche delle lettere fanno bella mostra di sé in perfetto ordine. Ma io cerco il quarto piano e quindi devo salire. Non è così facile come si potrebbe immaginare: non è proprio «dopo il terzo viene il quarto e così via». Ci sono angoli da svoltare con apprensione, scale che si interrompono, cancelli che ti sbarrano il cammino senza preavviso. Così, un po’ scoraggiata, chiedo all’ unica persona che incontro. Ci sei già al quarto piano, mi rivela Jacinto Gil Bucari che ha trent’ anni, ed è capoverdiano. Non mi stringe la mano perché la sua puzza di pesce, però mi fa entrare a casa sua. È una di quelle occupate: lui è subentrato cinque anni fa al posto di un ragazzo egiziano che ha lasciato in eredità al condominio un murales con piramidi e feluche sul muro abusivo. Jacinto mi racconta della sua vita, e intanto si fa una doccia per togliersi di dosso l’ odore del pesce che ogni giorno consegna in giro per la città col furgoncino della ditta. È arrivato in Italia con suo fratello quando aveva poco più di dieci anni. In aereo, col cartello al collo e per mano a una hostess. Raggiungeva finalmente la madre, che si era risposata e aveva un lavoro. Gli è rimasto, delle sue isole, solo un lievissimo accento che nasconde sotto il romanesco parlato a una velocità supersonica. E sempre a mille all’ora mi parla anche di Corviale, dove lui sta bene, dove la gente secondo lui vive abbastanza tranquilla, malgrado il degrado che li trascende. Ma fin dove possono, si sforzano di rimediare. Tutte le persone con cui parlo sembrano avere verso il “mostro” un atteggiamento affettuoso paterno, come si può avere verso un figlio un po’ malacarne, ma al quale non si può non voler bene. Anche la signora che incontro dopo aver lasciato Jacinto si scusa perché, dovendo io prendere le scale, sarò costretta a passare per lo zozzume. Qui, mi mostra, abbiamo pulito. Ma laggiù. Seguo le indicazioni di Jacinto e torno verso il pianterreno, dove dovrebbero aver sistemato qualche negozio di quelli previsti per il quarto piano. Ma l’alimentari è chiuso perché è presto, il supermercato per totale abbandono. Trovo invece una palestra per il pugilato e una scuola di ballo, i cui irettori hanno lo stesso cognome. Buffo, penso. La spiegazione me la dà una dottoressa. Vicino a una specie di bar che viene chiamato “la bisca” c’è infatti una sede della Usl, con un piccolo policlinico e un consultorio dall’aspetto lindo e efficiente. La dottoressa mi spiega che gli abitanti di Corviale si sono raggruppati in cinque o sei grandi famiglie che provengono dalla prima immigrazione. Col tempo è avvenuta una selezione tra gli assegnatari delle origini: quelli che sono rimasti si sono allargati, via via che si liberava un alloggio ci mettevano dentro i figli i quali entravano come abusivi e dopo qualche anno venivano condonati e assegnati. Strutture sanitarie e centro anziani sono arrivate qualche anno fa, nel periodo in cui si svolgeva la guerra contro i tossici. Erano le truppe del Comune mandate in appoggio ai condomini. E i condomini, dopo un’iniziale diffidenza, le hanno prese in consegna. Gli anziani, in quella che forse doveva essere una serra, ci hanno fatto un pollaio, con parecchie galline e un gallo spelacchiato che deve difendere la sua supremazia dalle mire di un fagiano assai più elegante. Ma Corviale è così, una specie di enorme villa degli Scalognati pirandelliana, dove quello che vedi può sembrare un incubo, ma forse è solo un’apparizione inventata per tenere lontani i Giganti della Montagna. I criticoni, gli architetti arroganti, i giornalisti, me. – ELENA STANCANELLI